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Abitare la Terra 2030 è un servizio di informazione gratuito curato da Fondazione Fontana onlus e sostenuto dal Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani assieme al Non Profit Network-CSV Trentino. Fondato sui temi della promozione e sviluppo del volontariato, della cooperazione internazionale e tutela dei diritti e promozione della pace, si muove nella cornice dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Il senso d’urgenza

C’è una serie tv americana molto raccontata negli ultimi mesi (è uscita la seconda stagione, attesissima) che si chiama The Bear: l’espediente che innesca le vicende è quasi “normale” (una cucina da incubo trasformata in locale funzionale; vite disfunzionali che si incontrano e scontrano) raccontato, però, in un modo coinvolgente e disturbante, capace di scatenare empatia ed emozioni toccando una serie di nervi scoperti che moltɜ di noi hanno rispetto a questioni universali come il lavoro, la famiglia, le dipendenze, la malattia mentale, il futuro (il proprio, soprattutto).

In una scena di una puntata a metà della prima stagione, non ricordo nemmeno con esattezza quale, il protagonista Carmy Berzatto appiccica un pezzo di scotch di carta al piano del pass, il tavolo da cui Sydney (la sua seconda) chiama gli ordini, verifica i piatti e fa proseguire il servizio.

Su quel pezzo di scotch di carta scrive SENSE OF URGENCY – senso di urgenza: lo fa per richiamare l’attenzione, mettere un promemoria costante a Sydney, su quale sia il ritmo e il tono che devono avere le chiamate dei piatti. Lo stesso ritmo attorno al quale si muove il lavoro della cucina: andante, accelerato ma non frenetico. 

Cose di cui parlare prima che sia troppo tardi

Tradurre urgency con urgenza però potrebbe essere un po’ riduttivo e quindi vediamo di capirci: guardando sul vocabolario Treccani, mi sono accorto che quel modo di usare la parola “urgency” – per come l’ho inteso io, evidentemente – non ha come traduzione italiana immediata la parola “urgenza” quanto, piuttosto, una sua particolare versione (forse un po’ dialettale e il mio dialetto d’origine è il ligure, quindi magari è la nicchia di una nicchia) che si confonde con la parola premura

Se è vero che urgenza è “il fatto, la condizione di essere urgente; situazione che richiede interventi immediati e rapidi” soltanto mescolando questo significato con quello di premura si ottiene una sfumatura simile a quella che Carmy prova a suggerire: ecco che il senso di urgenza riguarda, quindi, una “situazione che richiede interventi immediati e rapidi” che vanno agiti con “cura, sollecitudine” perché quella situazione “sta molto a cuore”.

Ci sono cose che ci stanno molto a cuore, che richiedono un’azione, di cui dobbiamo parlare prima che diventi inutile farlo, prima che sia troppo tardi. Il problema è che queste “cose” sono tante, tantissime, e lo sono in un modo che, inevitabilmente, spesso blocca o scoraggia da ogni forma di azione. 

Tocca scegliere e sperare: scegliere da cosa partire; sperare che altrɜ scelgano e che, l’insieme delle scelte, riesca a coprire la maggior parte delle cose di cui dovremmo parlare.

Tocca fidarsi, in un mondo in cui la fiducia non è esattamente il sentimento più diffuso.

Questa è metà della medaglia, però: il fatto che la partecipazione ad azioni di cittadinanza attiva sia così fortemente in crisi dovrebbe farci riflettere su (almeno) due cose anche abbastanza banali.

La prima: siamo davvero-davvero sicurɜ che quello che noi (dove questo noi guarda alla comunità vasta di chi fa volontariato e/o attivismo) definiamo come partecipazione o cittadinanza attiva siano definizioni ancora valide in quanto comuni e condivise?

Da questo punto di vista, qualche sera fa – durante un laboratorio a Vezzano – una partecipante ci ha raccontato alcune esperienze di “volontariato libero”: dimensioni di estrema prossimità, di vicinato, in cui persone non associate né inserite in contesti di volontariato aiutano vicinɜ in difficoltà con azioni anche molto poco strutturate come offrire un caffé, fare la spesa, chiacchierare.

Si tratta di azioni minute e potremmo dire che per essere volontariato c’è bisogno che le azioni messe in campo siano più strutturate. Siamo sicurɜ di volerlo dire?

Certo facciamo fatica a definire, a circoscrivere e raccontare un fenomeno se questo perde le strutture che ha sempre avuto: una lettura consigliatissima, da questo punto di vista, è il Piccolo erbario della progettazione che Svolta ha pubblicato in queste settimane.

Questo volumetto (che potete scaricare liberamente qui) è l’esito di un lavoro lunghissimo, che ha coinvolto tante persone diverse. 

A Marco Cau e Graziano Maino è stato chiesto di introdurre il tema della collaborazione, del progettare insieme e lo fanno con undici parole chiave, invitandoci ad aggiungerne. Sono: curiosità, incontri, desideri, energie, spazi, iniziative, progetti, cambiamenti, apprendimenti, racconti, convivialità.

La bellezza di queste parole è sicuramente la loro declinazione al plurale, a significare che non esiste un unico modo di intenderle. Un altro tratto di bellezza – e la parola che aggiungerei io – è che un filo rosso che mi permetto di intravedere in queste undici chiavi di lettura è la spontaneità con cui tanti di questi aspetti si muovono nella realtà. Dentro questa parola – spontaneità – sta un pezzo di conflitto (interno ed esterno) che attraversa i mondi della progettazione sociale, del volontariato e – forse – anche quelli di alcune forme di attivismo (penso a quello legato alla partecipazione politica o a quella sindacale). 

Fatichiamo mortalmente – come organizzazioni – a riconoscere una capacità di trasformazione a ciò che emerge con e nella spontaneità: tuttavia anche chi fatica ad uscire dall’idea che lɜ volontarɜ siano solo quellɜ iscritti al libro dei volontarɜ di un’associazione non può non riconoscere come il volontariato si basi sull’idea di una messa a disposizione volontaria, libera e gratuita di sé stessɜ e del proprio tempo. Ecco, se questa è una spiegazione mediana e non definitiva del concetto di volontariato, cosa significa il fatto di dover aggiungere l’aggettivo libero accanto ad una attività che libera lo è già di per sé? Forse abbiamo esagerato nel pretendere dal volontariato un ruolo che il volontariato non dovrebbe avere.

E se questo fosse il momento?

La seconda questione: siamo davvero, davvero, sicurɜ che tuttɜ debbano in qualche modo essere attivɜ? O, ancora, siamo sicurɜ che tuttɜ siano postɜ nella possibilità (materiale come immateriale) di poter immaginare di attivarsi?

Sono due domande diverse, lo so, ma in qualche modo dobbiamo riconoscere una connessione tra loro: la prima pone una questione quasi “morale” che chiunque faccia attivismo o volontariato prima o poi deve porsi. Questa sorta di massimalismo del volontariato implica inevitabilmente il ritenere che chi non lo fa sia in qualche modo in difetto o a derive anche peggiori (“eh non fai questa cosa qui quindi perché ti lamenti se non cambiano le cose?” o frasi analoghe).

Certamente è una tentazione che ha una minoranza assoluta di persone che fanno attivismo: devo ammettere che mi è capitato (e a volte mi capita ancora) di avere espressioni simili, però. Questo perché la frustrazione è tanta e le soddisfazioni ci sono ma sono spesso meno di quelle che vorremmo.

Poi c’è il tema dell’accessibilità: quante persone sono nella disponibilità di tempo, sicurezza economica, disponibilità emotiva, di poter avere accesso ad un volontariato molto più burocratico di quanto non lo sia stato in passato, gestito da logiche che spesso respingono chi ha incarichi di cura (perché le riunioni sono troppo lunghe, perché sono in orari inaccessibili) oppure respingono chi ha minor voce e minori privilegi (perché focalizzate su dinamiche che risultano incomprensibili alle generazioni più giovani o perché dominate da uomini adulti che faticano a cedere spazio di decisione ad altre persone).

Vogliamo parlare di tutte queste cose. Anzi: dobbiamo parlarne, prima che sia troppo tardi.

Con CSV Trentino siamo andatɜ a chiedere quali altre siano queste cose a attivistɜ, organizzazioni di volontariato, enti del terzo settore, corpi sociali, fondazioni, realtà che sui territori fanno questo ogni giorno: lo abbiamo fatto scegliendo un pezzetto di questo ragionamento che crediamo però essere abbastanza importante, cioè il modo e le motivazioni che spingono le persone ad attivarsi. 

In questi anni di crisi perpetua della partecipazione, ci sembrava urgente fare qualcosa. ARIA | Spazi di contaminazione tra volontariato e attivismi è un l’esito di molte cose ma parte – soprattutto – da una domanda: e se questo fosse il momento? Quello di affrontare tutta una serie di cose che lasciamo spesso da parte, quello di far dialogare di più chi fa attivismo con chi si attiva in contesti più istituzionali. Quello, insomma, di trovare alleanze che parlino di tutte queste cose. 

E se questo fosse il momento, allora? Il 18 novembre sarà un’occasione in più: dentro a questa, prima e dopo e (tutto sommato) anche al netto di questa giornata che CSV propone, però, dobbiamo chiederci se forse non è – finalmente – arrivato il momento in cui non possiamo più non chiederci come tornare a lavorare davvero assieme, dal volontariato al lavoro sociale, dall’attivismo disorganizzato alla militanza classica, per affrontare la tempesta.