Alpi e storia di genere, turismo responsabile e cultura montana, sviluppo sostenibile delle Terre Alte e permanenza, se non ritorno, della popolazione in zone fragili… Di tutto questo si occupa in Trentino (e non solo) l’Associazione Sherwood che dal 2016 coniuga in modo originale diversi Obiettivi dell’Agenda 2030 come il quinto sulla “Parità di genere”, l’undicesimo sulle “Città e comunità sostenibili” e il quindicesimo dedicato alla “Vita sulla Terra” che si concentra sul “Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre”. Ne abbiamo parlato con Michela Zucca, presidente e anima dell’associazione oltre che antropologa, impegnata da più di trent’anni nello sviluppo di zone rurali e di montagna, attraverso la valorizzazione del territorio, la formazione partecipata e l’uso della cultura identitaria come risorsa per lo sviluppo economico.
Di Alessandro Graziadei
Grazie del tuo tempo e della tua disponibilità Michela. Ci racconti quando e perché è nata l’associazione Sherwood?
MZ: Associazione Sherwood è nata nel 2016. L’idea è quella di creare un centro di ricerca-azione sull’economia di sussistenza e l’autosviluppo per cercare di sopravvivere alla crisi climatica. Abbiamo restaurato una casa in totale autocostruzione, che ha già aperto una piccola foresteria e una biblioteca specializzata sui nostri temi che è anche sala convegni-formazione. L’obiettivo è creare un centro di documentazione e di ricerca-azione sulle culture alpine, sulla storia delle donne in montagna e sulle economie di autosussistenza per elaborare soluzioni di sopravvivenza gestibili dal basso rispetto alla crisi ambientale e al riscaldamento del pianeta. Sherwood già dalla statuto ha messo una discrimine positiva di residenza, genere e classe sulle persone che lavoreranno al progetto: saranno privilegiati chi viene da ceti bassi, da bassa formazione di ambiente di provenienza, chi risiede in paesi di piccole dimensioni in montagna (e sarà chiesto il cambiamento di residenza), le donne. Chi verrà a Sherwood dovrà fare sia lavoro intellettuale che manuale, mantenere la struttura e fare autoproduzione per tutto quello che sarà possibile, come sta già succedendo adesso. La ricerca di base dovrà essere accompagnata dal lavoro manuale di produzione, riproduzione e mantenimento. In questo senso la casa funziona come oggetto formativo e possiamo insegnare a chi vuole prendere questa strada.
Coniugare la storia delle Terre Alte con lo sviluppo territoriale delle zone montane in un’ottica di ricerca scientifica, storica, antropologica è stato una delle prime vostre sfide.
MZ: Prima di tutto, noi siamo contro lo sviluppo. Non esiste uno sviluppo sostenibile, almeno allo stadio attuale della crisi climatica. Pensiamo anzi che sia necessario tagliare la produzione ed i consumi che non siano assolutamente essenziali alla sopravvivenza fisica e lasciare il permesso di svilupparsi a chi sul pianeta ancora muore di fame ed è sfruttato da noi per le risorse energetiche e le terre rare.
Detto questo, la mission di Sherwood viene perseguita con attività che elaborano alcuni temi forti, che secondo noi sono alla base della civiltà alpina:
· Coscienza di comunità, identità e condivisione
· Cooperazione alpina ed extra – alpina
· Autoproduzione, valorizzazione e uso di risorse interne al territorio
· Rafforzamento del ruolo delle donne
Fin da principio la vostra attenzione e i vostri progetti si sono rivolti principalmente ai comuni e alle popolazioni delle zone marginali di montagna. Con quale obiettivo?
MZ: Lo studio delle civiltà antiche e delle culture popolari alpine e montanare viene condotto per cercare soluzioni ed esempi. Patriarcato e capitalismo sono solo l’ultimo respiro di una storia dell’umanità che è molto più antica di quanto normalmente si pensi: e che si è sviluppata secondo regole diverse da quelle che si credono eterne. Il mercato in poche generazioni è riuscito a distruggere civiltà che vivevano in armonia con l’ambiente da migliaia di anni. Che per lo più sapevano darsi dei limiti e non oltrepassare la capacità portante degli ecosistemi. Il «progresso» e il capitale hanno accelerato il processo di marginalizzazione delle montagne. Il 60% dei comuni d’Italia sono oramai aree in cui non vi sono più servizi e produzione; luoghi dove vive meno di 1/4 della popolazione complessiva del Paese. Un modello di organizzazione geografica dell’economia che è già affermato in gran parte dei paesi a «sviluppo avanzato».
Noi pensiamo che il riscaldamento globale e l’alienazione della vita nelle metropoli renderà le montagne dei luoghi desiderabili non per il turismo (attività che porta ben più danni che benefici e che noi non appoggiamo in alcun modo) ma per abitare. Intendendo “abitare” come qualcosa di molto diverso da “risiedere”: chi risiede può anche fare smart working tutto il giorno e lavorre via satellite. Chi abita un posto trae dal territorio il necessario per mangiare, scaldarsi e fare attività sociale. Noi vogliamo attrarre gente che abti la montagna, e offriamo tutto il supporto che possiamo a chi vuole trasferirsi.
In molti incontri organizzati da Sherwood hai parlato dei Reti e di come questi antichi popoli di montagna avevano raggiunto un alto grado di civiltà vivendo secondo regole egualitarie che assicuravano un alto livello di vita per tutti. Come può una cultura identitaria passata essere risorsa per lo sviluppo?
MZ: Ripeto che noi siamo contro lo sviluppo e facciamo di tutto per ostavolarlo in ogni modo possibile.
Da molto tempo si è scoperto che le società «preistoriche» non sono dominate da un’economia di miseria e di scarsità di mezzi di sussistenza. Ponendosi stretti limiti demografici e calcolando la capacità portante degli ecosistemi, vivono nell’abbondanza, e non diventano povere se non quando entrano in contatto continuo e prolungato con i bisogni che l’Occidente ha creato, e che il loro sistema di produzione non è in grado di soddisfare.
Le tribù di cacciatori-raccoglitori sono strutture quasi egualitarie: le differenze di classe cominciano ad esistere molto tardi nella storia dell’umanità. La fame cronica di cui soffre gran parte del genere umano è una creazione della nostra epoca, ed è la conseguenza di un’evoluzione tecnologica senza precedenti, che però, in compenso, ha creato generazioni di miserabili.
Sulle Alpi sono rimaste strutture socio economiche, costruttive e produttive arcaiche, le cui origini risalgono all’età della pietra. Le strutture socio-economiche delle comunità alpine non sono state sostanzialmente modificate né dagli Etruschi, né dai Celti, né dai Romani. Lo stesso avviene con la religione e la cultura.
Le società matrifocali egualitarie, in cui non esiste quasi la proprietà privata, è assente l’aristocrazia e la schiavitù, i capi in guerra sono eletti dall’assemblea del popolo in armi e le donne combattono, resistono all’attacco delle culture patriarcali lontano dei luoghi di concentrazione e riproduzione del potere: fuori delle città, nelle campagne, sulle montagne, nei boschi.
Le Regole che sulle Alpi si sono tramandate per secoli (ma probabilmente per millenni) avevano uno scopo fondamentale: impedire il depauperamento del territorio imponendo dei limiti allo sfruttamento. Praticamente, frenare lo sviluppo.
A causa della crisi climatica che il mondo deve affrontare siamo obbligati a fare «un passo indietro» nello sviluppo e nel consumo delle risorse. Per questo è necessario studiare quelle società che sono state capaci di darsi dei limiti e all’occorrenza di «regredire».
Fra poco, a causa del riscaldamento climatico e dell’impossibile scalata sociale a meno che non si appartenga al 10% di popolazione privilegiata, molti di noi dovranno porsi il problema di come cibarsi e di come scaldarsi d’inverno. Dato che in Italia gran parte del territorio agricolo è stato abbandonato, soprattutto in montagna, si sono aperti spazi di libertà che consentiranno la pianificazione di una società diversa possibile, basata sulla condivisione. Un sistema sociale “tradizionale”, che consente a tutti di vivere, e che, a fronte di costi sociali tutto sommato limitati, permette la massima protezione agli elementi deboli.
Nelle comunità preindustriali, anche in quelle agricole di piccole dimensioni, esisteva un modello economico che tendeva all’autarchia: si cercava di produrre tutto quanto serviva all’autosussistenza, per ridurre la necessità di servirsi degli scambi di mercato. Le relazioni di produzione erano definite in base alla parentela. La forza lavoro si limitava a ciò che la famiglia poteva gestire, eliminando gli sprechi. Questo sistema economico è crollato quando è entrato in contatto col mercato, sia per quanto riguarda le civiltà “di interesse etnografico”, sia per le culture contadine europee.
Ma non si può considerare arretrato il sistema economico tradizionale, perché riusciva a realizzare ciò che gli economisti oggi provano (invano) a teorizzare: il ciclo chiuso, produzione-consumo-riuso/riciclaggio dei rifiuti-cura dell’ambiente.
Ricordiamo che gran parte della tecnologia che alza veramente il livello di vita della gente in Europa viene creata nel Medio Evo. Si tratta di quei proicessi – connessi di solito all’energia dell’acqua ma non solo – che hanno permesso all’econbomia europea di trionfare su tutte le altre. Mulini, segherie, frantoi, rotazine delle culture, telai meccanici, il ciclo della legna, del vino, del latte, della castagna, di tutte le altre piante alimentari, il maglio, l’aratro pesante, il ferro di cavallo, il basto per cavalli e l’attracco a tandem per animali da traino, il carro da trasporto pesante: tutte cose che in molte zone del pianeta ancora non sono in uso. Le donne africane, se vogliono far farina, pestano per ore i cereali a mano in un pestello….. ancora oggi. Non hanno il mulino.
L’elaborazione collettiva di un ciclo di produzione prevede la diversificazione a seconda del territorio e l’invenzione di tutta una serie di attrezzi di grande precisione e specificità. Questo implicava la formazione di competenze complesse che venivano tramandate. Di fatto anche se non rende moltissimo, azzera gli sprechi e l’impatto ambientale.
La produzione «tradizionale» di energia consente di reimpiegare la stessa fonte più e più volte, per usi diversi (fra cui nel caso dell’acqua anche quello umano), di essere gestita dal basso, spesso di non bruciare niente (a parte il riscaldamento delle abitazioni), quindi evitando CO2, scorie e rifiuti.
Calavino (Tn), 1400 abitanti, aveva più di 20 ruote da mulino fino agli anni ‘50, più due trombe idrauliche che alimentavano il fuoco per il maglio. Oltre alle farine si producevano tessili, anche di pregio come la seta, ceramiche e addirittura porcellane, ferro. Oggi nessuno in Trentino fa più nè la seta nè la porcellana.
Questo ci fa affermare che un’altra tecnologia è possibile. Attraverso processi di elaborazione collettiva basati sul bisogno e sulla conoscenza del territorio in comunità contadine tendenzialmente egualitarie.
Non solo. Malgrado il «progresso», l’orticoltura a zappa rimane la metodologia più produttiva in assoluto. Gli ultimi dati disponibili riguardano la Russia: il 30% della superficie, lavorata a mano con attrezzi «primordiali» produce il 70% delle derrate alimentari disponibili per la popolazione. Con danno ecologico e sprechi ridotti al minimo. Anche in Italia i dati CIA dimostrano che il 61% delle persone ha accesso a un orto. Non esistono dati certi per l’accesso alle risorse forestali.
Quando questa organizzazione, che è durata per migliaia di secoli, è saltata su vasta scala, il pianeta si è avviato verso il disastro ecologico. In ambiti come questi, il lavoro dello studioso, e di associazioni come Sherwood, può collegarsi strettamente alle richieste del contesto sociale vivo, che sta cercando – da decenni, ormai – un nuovo paradigma economico, che rispetti gli ecosistemi invece di distruggerli, e che aumenti le possibilità di sopravvivenza alla crisi climatica.
Siamo stati a Malta per cercare di capire come mai una società matrifocale, egualitaria, avanzatissima non riuscì a capire di aver raggiunto il proprio limite ecologico e si estinse nel giro di pochi anni. Probabilmente – come sta succedendo a noi – avevano sottovalutato il pericolo, avevano creduto nell’aiuto degli dei, si erano rifiutati di individuare le cause e di prendere contromisure adeguate: morirono tutti.
Stiamo cercando di capire quali meccanismi sociali hanno messo in campo culture che, in diverse parti del mondo, hanno deciso di «tornare indietro». Fino ad ora è stato interpretato come segno di imbarbarimento. Ora però si impongono criteri diversi.
Di fronte alla crisi ambientale, al pericolo di estinzione, altri popoli (quelli appunto «rimasti» o «regrediti» all’Età della Pietra) sono riusciti a reagire, ad imporsi dei limiti, a sopravvivere. Abbiamo molto da imparare da loro. Saremo capaci di fare altrettanto anche noi, e sopravvivere, oppure dobbiamo rassegnarci alla fine?
Il tema dello spopolamento di alcune zone montane è un tema importante che dovrebbe essere all’ordine del giorno anche dell’agenda politica trentina oltre che italiana. A fine Marzo è stato pubblicato dal Governo Meloni il “Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne: pianificazione, innovazione e partecipazione territoriale”, un piano che mira ad imprimere unitarietà e coerenza politica alla strategia nazionale per lo sviluppo delle Aree Interne e delle Terre Alte. Il documento, che dovrebbe definire la governance di queste aree, è stato aspramente criticato dall’Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani (Uncem) perché sostiene in un suo passaggio che è importante “L’accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile” di queste aree, che “Non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza”, ma “Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”. Cosa ne pensi?
MZ: La rivoluzione urbana segna l’inizio di un movimento migratorio che sembra inarrestabile: lo spostamento di popolazione dalle zone interne, principalmente montagnose ma anche pianeggianti, alle città e alle coste, contemporaneamente, per quanto riguarda l’Italia, alla migrazione dal Sud al Nord. E’ un movimento tuttora in atto, che coinvolge primariamente le componenti riproduttive e in parte quelle culturalmente più preparate: le donne e i giovani laureati.
Il problema dello spopolamento si ripercuote immediatamente a livello di territorio. I versanti curati per tremila anni, terrazzati, spietrati, sorretti dall’intervento umano, non reggono all’abbandono. Ritorna il bosco con le piante ad alto fusto, che non sono più tagliate: si ripristina il limite altimetrico naturale degli alberi, abbassato dall’intervento umano per creare spazi di pascolo per le bestie. Tornano i predatori. Il terreno, non più sorretto dalle terrazze che non vengono più riparate e si disfano, frana, trascinando con sé tutto ciò che esiste fino a valle. Gli interventi «tecnologici» di controllo (come la cementificazione dei letti dei torrenti) non fanno che peggiorare la situazione, perché pensano di sostituire il lavoro umano di presidio e riparazione che soltanto la permanenza degli abitanti e una cultura di lavoro e di cura condivisa e costante possono realizzare.
Questo tipo di interventi sono praticamente inutili: costosissimi, mettono a repentaglio la vita di operatori altamente specializzati e ben più utili in altre condizioni, salvano una manciata di vite (quando va bene) ma non servono a salvaguardare il territorio. Sono una vetrina per i politici, che possono vantarsi dell’efficienza della protezione civile, investire in mezzi scenografici e filmare interventi spettacolari, mentre il lavoro di controllo e ripristino del degrado è continuo e non fa notizia (ma permetterebbe di limitare il danno).
Lo spopolamento è un problema di genere: le donne, appena hanno potuto, hanno abbandonato in massa i paesi di montagna, attuando una protesta femminista radicale contro un modello patriarcale di famiglia che non voleva rinnovarsi. Se non se ne sono andate, hanno rifiutato di sposare un contadino e spinto le proprie figlie alla fuga. Così mentre la popolazione italiana aumenta del 20% in cinquant’anni, sono pochissimi i comuni alpini che reggono il passo: gli altri si avviano inesorabilmente verso la marginalità economica, sociale, culturale. Lo spopolamento è aggravato dal brain drain giovanile: la provincia di Bolzano ha i tassi più alti d’Italia di emigrazione.
In Italia la popolazione si è concentrata lungo le coste. Vicino al mare si trovano gli insediamenti produttivi , industriali e agricoli. Il cambiamento climatico favorirà la desertificazione di ampie aree del Sud, già dipendenti dall’irrigazione. Gran parte delle coste, dove ora si concentrano gli impèianti produttivi, i porti e gli insediamentio, verrà sommersa. La gente perderà la casa e il posto di lavoro. Nel giro di pochi decenni diversi milioni di persone dovranno essere ricollocate.
Il movimento che continua ad accentrare la popolazione nelle città probabilmente dovrà invertirsi causa il riscaldamento globale. I dati metereologici danno entro il 2050 il clima di Milano come quello di Karachi oggi: le metropoli non saranno più abitabili. Quindi, chi vorrà sopravvivere, semplicemente dovrà cambiare aria, con buona pace dei signori dei piani strategici delle aree interne. Gli altri soffocheranno nel cemento e morranno di fame.
Valorizzare il ruolo delle donne, nella storia e nel contesto della cultura di montagna è da sempre un altro dei vostri interessi. Lo fate con numerose iniziative legate anche al bando della Commissione Provinciale per le Pari Opportunità “Madri e Madonne delle montagne”.
MZ: La Comunità della Valle dei Laghi conta quasi 11.000 abitanti. La popolazione è in aumento. Ma, come già rilevato attraverso le ricerche condotte dal gruppo di Antropologia del Centro di ecologia alpina nell’ambito dei progetti europei Recite II- Learning Sustainability e Interreg IIIC – Network of Villages, il problema maggiore per i giovani e le donne (ma non solo) era (ed è) quello del pendolarismo prima formativo, poi lavorativo, e infine spesso permanente, che porta soprattutto le donne che hanno un’istruzione superiore a percepire i propri luoghi di origine come paesi senza alcuna attrattive e prospettiva, a usare la valle come dormitorio mentre la loro vita è altrove e spesso a trasferirsi in città. Le donne che vogliono vivere una vita indipendente se ne vanno: è praticamente assente la figura della ragazza single che vive da sola nel paese di origine. Ancora oggi il modello prevalente vede l’uomo lavorare fuori e la donna stare a casa, a svolgere il lavoro di cura, o a fare “lavoretti”. In presenza di un’azienda di famiglia, e di una giovane donna istruita e formata, l’attività passerà al genero e non alla figlia. Negli ultimi anni la valle si sta riconvertendo al biologico, si sta verificando anche una tendenza inversa: molte giovani hanno creato attività agricole o miste agricole turistiche e agricole-artigianali. Ma non bastano a compensare l’esodo e il pendolarismo.
Il contesto socio-culturale è fortemente patriarcale: le ragazze che vogliono sfondare il “tetto di cristallo” devono costruirsi una vita lavorativa fuori dalla Valle. Quando tornano sono di fatto costrette dall’ambiente sociale e svolgere il lavoro di cura tradizionale. Non è consentito per le donne avere tempo libero a propria disposizione, se non in alcuni ambiti molto ristretti che sono accettati socialmente (per esempio le attività legate alla parrocchia, o al volontariato sempre preferibilmente legato ad enti religiosi o di carattere benefico). Non esistono iniziative culturali rivolte alle donne, il femminismo è rifiutato dalla gran parte della componente femminile, percepito come distante, estraneo alla propria cultura e al proprio contesto. Ma i progetti che tentano di valorizzare il ruolo femminile all’interno della civiltà di riferimento – quella contadina, tradizionale, arcaica – sono molto ben ricevuti. Lo abbiamo visto col Museo della donna a Lasino (Madruzzo), gli arkeotrekking che sono dichiaratamente femministi, e che hanno coinvolto ormai centinaia di persone, nella stragrande maggioranza donne, l’organizzazione degli itinerari di trekking delle “Madri Antiche”, la costruzione del sito web sulle emergenze archeologiche della Valle col GAL. E’ solo proponendo dei ruoli femminili “forti”, che si dimostra siano stati svolti anche nei tempi passati, che si riuscirà a giustificare culturalmente l’assunzione di ruoli pari a quelli maschili.
E visto che l’antropologia e la sociologia dimostrano che se si vuole introdurre un’innovazione in un contesto fortemente conservativo è meglio presentarla come una valorizzazione e un’attualizzazione di ciò che anticamente esisteva e che rischia di venir dimenticato, abbiamo pensato di proporre il tema storico associato ai trekking sul territorio per valorizzare la cultura delle pari opportunità in contesti femminili in cui un approccio femminista classico sarebbe rifiutato.
Nei due anni scorsi abbiamo proposto, con notevole successo, un ciclo sulle Madonne accompagnato da percorsi di trekking: le partecipanti hanno fortemente richiesto di poter continuare gli incontri. Hanno espresso anche la richiesta di una conoscenza profonda del territorio, che normalmente da sole non avrebbero mai ricercato, e di un’attività sportiva ma non competitiva, che le porti a fare attività fisica in maniera rilassata e perseguibile da tutte. Inoltre, l’associazione è stata riconosciuta come ente formatore insegnanti dall’IPRASE: maestre e professoresse del luogo hanno espresso il bisogno di poter frequentare corsi di aggiornamento e i trekking legati alle tematiche di genere e alla cultura. Per questo motivo abbiamo deciso di proseguire quest’anno con una rassegna sulla storia delle donne, composta sempre di conferenza, cena, film, e arkeotrekking il giortno dopo.
Montagna e genere si coniugano bene con uno dei vostri progetti più importanti, l’Arkeotrekking, capace di promuovere, attraverso questi due temi, la risorsa turistica con un turismo culturale, dolce e sostenibile. Ci racconti in cosa consiste?
MZ: Come attività di diffusione e comunicazione abbiamo “inventato” l’arkeotrekking. Non si tratta di un’attività turistica ma di divulgazione, aggregazione e condivisione. Il trekking è un’iniziativa politica. Impostiamo i nostri trekking come veri e propri seminari di riscoperta di sistemi di sopravvivenza e condivisione delle tribù delle Alpi che potrebbero diventare soluzioni di sopravvivenza alla crisi climatica, al patriarcato e al fascismo dilagante. L’arkeotrekking è dichiaratamente femminista. Attraverso passeggiate alla portata di tutte (in cui la fatica della salita fa parte del percorso formativo), identifichiamo le tracce delle antiche comunità. Studiamo i sistemi di funzionamento delle comunità egualitarie e di quelle civiltà che sono riuscite a “tornare indietro” e a sopravvivere alle crisi ambientali, rispetto a quelle che invece non hanno saputo regolarsi e capire i vincoli che la natura gli imponeva e sono scomparse. Per questa ragione ci occupiamo di riscoprire l’archeologia di montagna.
Riattiviamo percorsi arcaici che collegano siti archeologici di mezza costa, dove la gente ha vissuto per migliaia di anni, e le comunità sono riuscite a mantenersi libere malgrado i problemi di sopravvivenza. L’arkeotrekking è un seminario itinerante, in cui si cerca di scoprire come funzionavano le antiche comunità egualitarie e matrifocali montanare. Siamo convinti che l’unica possibilità di sopravvivere alla crisi climatica sia ritornare all’autogestione e all’autoproduzione, e che le montagne saranno (forse) fra i pochi luoghi salvati dal disastro e reinsediabili.
L’arkeotrekking è organizzato su tempi lunghi: due giorni, due giorni e mezzo. Perchè vogliamo favorire aggregazione e cpontatto. SE facessimo conferenze “normali”, chi non è abituato alla partecipazione verrebbe, ascolterebbe e se ne tornerebbe a casa. Ma se ti tocca stare assieme alla stessa gente per giorni, mangiare e magari anche dormire assieme, anche le più timide si esprimono: è difficile star zitte tutto il tempo!!!!! E così nascono amicizie e relazioni, che si trasmettono nel tempo.
Gli arkeotrekking e tutte le nostre attività sono basate sulla condivisione non solo di idee, ma anche di spazi e di mezzi. Per questo motivo chiediamo ai partecipanti di condividere gli spazi di vita, cioè le stanza se pernottano a Sherwood, e le macchine, in modo da causare meno traffico possibile e consumare meno combustibile. Fino ad ora abbiamo avuto poche obiezioni.
Chi partecipa all’arkeotrekking? Principalmente donne, di ogni condizione sociale, di ogni tipo di titolo di studio: dalla bidella alla docente universitaria. Adulti: pochi i giovani, la media è dai 40 in poi. Vengono apposta da Roma in su: malgrado i tentativi, non abbiamo mai avuto un turista. Chi viene una volta di solito ritorna e spesso si attiva per farlo sul suo territorio.
Uno di questi Arkeotrekking si sviluppa in un territorio che conosci bene, l’Alto Garda. Ci racconti qualcosa su questo interessante percorso?
MZ Gli arkeotrekking vengono fatti in Trentino, dove c’è la sede operativa, ma anche in altri luoghi in cui esistono gruppi che ce lo chiedono e con cui avviamo rapporti di partnership. Si svolgono anche in occasione di eventi particolari (per esempio una mostra, o l’apertura temporanea di un sito artistico o archeologico) che consentano di acquisire uno sguardo diverso sulla storia di genere o sulla microstoria, per permettere di far sentire la propria voce alle donne e a comunità che sono state private della possibilità di esprimersi. Coinvolgiamo operatori e produttori sul posto.
Ma il primo posto – dove lo organizziamo tutti gli anni, magari anche più volte – è il territorio in cui stiamo,
Esiste a Madruzzo in Trentino una casa del ‘500, fondata su una torre medioevale: quella che era la cancelleria del castello più antico dei Madruzzo. Un edificio che col passar del tempo è stato dismesso, ma su cui da anni Sherwood ha elaborato e sviluppato il progetto di una “casa ospitale”. Di cosa si tratta?
Sherwood si basa sul nostro lavoro – mio e del mio compagno, che ci stiamo mettendo una casa e tutta l’attrezzatura che ci starà dentro. Io e lui abbiamo scelto di dedicarmi full time all’associazione, e lui ha preso un part time. Compensiamo il mancato ingresso con l’autoproduzione e l’autocostruzione. Abbiamo attività a pagamento che in qualche modo riescono a compensare qualche spesa. Per scelta la tessera associativa ha un prezzo molto basso e così le attività. Non possiamo destinare fondi alla pubblicità. La casa è già stata destinata ad uso pubblico.
L’idea è che diventi un centro di ricerca e di azione. Vorremmo che quando non ci siamo più l’attività continuasse, che fosse popolata da giovani ricercatori (una decina ci stanmno comodamente) che si autoproducessero cibo e combustibile ed elaborassero nuovi sistemi per vievere in società egualitarie, non sessiste, rispettose dell’ambiente.
Una casa che sviluppa e promuove anche un’agricoltura familiare che si richiama a quegli antichi “usi civici” alpini dove l’intero ciclo del lavoro era basato sulla turnazione, lo scambio di attrezzi, l’uso comune di tutte le infrastrutture agricole. Saperi e pratiche che oggi si sono persi?
MZ: Con la crisi dell’agricoltura, e l’abbandono dei mestieri tradizionali, stalle e alpeggi sono stati chiusi, le bestie scomparse, una buona parte della popolazione si è trasferita in contesti urbani, il mantenimento del territorio è passato ad operatori specializzati, ma gran parte degli orti sono rimasti. Dall’indagine Coldiretti/Ixè sugli “Italiani nell’orto tra pollice verde e…nero” diffusa in occasione della Giornata della Terra il 23 marzo dell’anno scorso, emerge che oltre 6 italiani su dieci (61%) dedicano parte del tempo libero alla cura di orti, giardini, balconi e terrazzi per garantirsi frutta, verdura e aromatiche da portare in tavola o fiori per abbellire la propria casa. Nel 2015, sempre secondo l’indagine di Coldiretti, era solo il 46,2%. Si tratta di una crescita notevole, che probabilmente segna un cambiamento culturale e sociale profondo. Se in passato erano soprattutto i più anziani a dedicarsi alla coltivazione dell’orto, memori spesso di un tempo vissuto in campagna, adesso, continua la Coldiretti, la passione si sta diffondendo anche tra i più giovani e tra persone completamente a digiuno delle tecniche di coltivazione.
Pensiamo che la necessità farà tornare in auge pratiche che sono state considerate fuori moda e fuori tempo. Per chi vorrà sopravvivere almeno.
Chi verrà a Sherwood dovrà fare sia lavoro intellettuale che manuale, mantenere la struttura e fare autoproduzione per tutto quello che sarà possibile, come sta già succedendo adesso. La ricerca di base dovrà essere accompagnata dal lavoro manuale di produzione, riproduzione e mantenimento. In questo senso la casa funziona come oggetto formativo e possiamo insegnare a chi vuole prendere questa strada. Perchè la scienza teorica, senza il lavoro manuale anzi col disprezzo delle conoscenze materiali popolari. ha prodotto solo disastri: guerre, supremazia di classe, sfruttamento di popoli interi. SE gli intellettuali fossero obbligati anche a zappare, forse capirebbero il costo umano delle loro “scoperte”.
Quali sono i vostri prossimi progetti?
MZ: Abbiamo due progetti in corso per novembre . Con la Comunità della Valle dei Laghi, nell’ambito del progetto “Educhiamoci ad educare”, che quest’anno è incentrato sull’errore inteso come possibilità di crescita e non di fallimento, un intervento dal titolo “il coraggio di dire di no: cambiamento delle famiglie e paura di sbagliare”. Poi, sempre a novembre, nell’ambto del festival “Stramonio” che si tiene a Como, in collaborazione col Museo della seta, faremo un intervento sulla tessitura e la magiua nelle culture antiche. Poi, alla Befana, con la Casa delle Streghe di Saviore dell’Adamello (Bs), alla Befana faremo un arkeotrekking in cui parteciperemo ad un rito antichissimo che è sopravvissuto solo in questo piccolo comune ai piedi del ghiacciaio: la festa del Basilisco, il drago alpino che esce dal più profondo del bosco per rovelare i peccati di tutta la gente…… e poi vedremo!!!!!
Grazie per la tua disponibilità Michela e per il lavoro di ricerca e diffusione della cultura della montagna a livello storico, antropologico, economico che portate avanti con i progetti di Sherwood.


