di Marzio Fait
“Sedicenti pacifisti”.
Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina per la seconda volta in dieci anni, questa espressione è cominciata a circolare anche su giornali di grande prestigio.
Nata per colpire i sostenitori di Putin, è diventata sempre più spesso un’etichetta usata per screditare chiunque creda che la pace non coincida soltanto con la fine naturale di un conflitto armato, ma rappresenti un orizzonte di vita desiderabile per la società.
Una retorica che alimenta divisioni e rischia di far apparire come ingenua, debole e secondaria la ricerca del bene più prezioso che abbiamo: la pace.
Certo, si può discutere se sia legittimo proporre una via diplomatica in guerre che non viviamo direttamente, come in Ucraina, o immaginare un percorso di pace senza tenere conto del punto di vista delle persone coinvolte in un’occupazione che dura da decenni, come in Palestina.
Ma è ingiustificabile pensare che la risposta alle tensioni future possa essere il riarmo, le minacce o l’inasprimento del proprio posizionamento sul piano internazionale.
Che il modo in cui vogliamo stare nel mondo debba ancora basarsi sulla paura e sulla “mutua distruzione assicurata” della Guerra fredda.
Forse, invece, sarebbe importante guardare alle radici dei conflitti, accettarne la complessità, riconoscere gli errori del nostro passato coloniale e imperialista, sanare le fratture e provare a ricostruire un dialogo con chi oggi percepiamo come nemico.
Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato con Massimiliano Pilati, membro del Comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento e referente territoriale per il Trentino.

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Massimiliano Pilati. Cosa significa parlare di pace in questo momento storico? Quali complessità affronta chi prova a farlo, e come si può riuscire a parlarne in modo rispettoso nei confronti di chi è direttamente coinvolto in un conflitto?
Dal mio punto di vista, e da quello del Movimento Nonviolento, parlare di pace ha un solo significato. Il problema è che farlo davvero, come andrebbe fatto, è scomodo. Significa anche dire “non sono d’accordo” a persone che magari sono in piazza con te.
Abbiamo ancora negli occhi le immagini meravigliose delle manifestazioni di inizio ottobre contro il genocidio a Gaza.
Ecco, parlare di pace significa scendere in piazza per la Palestina, ma anche avere il coraggio di dire che il 7 ottobre non è stato un atto di rivolta o di rivoluzione, bensì un atto terroristico contro dei civili che ha violato il diritto internazionale.
Parlare di pace significa guardare non alle bandiere, ma alle persone. Chi soffre, soffre indipendentemente dal fatto che sia russo, ucraino, israeliano o palestinese.
Questo vuol dire parlare di pace: riconoscere l’ingiustizia ovunque si trovi. Perché l’ingiustizia non ha una bandiera, e la pace non può esistere dove c’è ingiustizia.
Come si riconosce chi difende la pace perché crede davvero in un senso di giustizia, da chi invece lo fa solo per motivi ideologici o politici, chiedendo di fermare il conflitto solo perché è più vicino alla propria parte?
Come dicevamo, occuparsi di pace significa occuparsi delle ingiustizie.
E le ingiustizie sono ovunque: bisogna rendersi conto che non esistono solo i “russi cattivi e barbari assassini” da una parte e gli “occidentali buoni” dall’altra. Purtroppo, o per fortuna, ci sono torti e ragioni da entrambe le parti.
Quando i russi dicono: “Se la NATO non avesse accerchiato la Russia…”, hanno una parte di ragione.
Quando la NATO risponde: “Se i russi non avessero invaso…”, anche quello è vero.
Le situazioni sono complesse: non c’è solo bianco o nero. Se non entri davvero nella complessità, non capisci.
E occuparsi di pace significa anche occuparsi di questa complessità, anche se ti espone inevitabilmente a critiche da ogni parte e ti costringe ad affrontare ogni ragionamento con fatica. Le soluzioni semplici non esistono, e le semplificazioni portano solo distorsioni: come dire che “trenta barchette disarmate davanti a Gaza rischiano di compromettere il piano di pace delle grandi potenze mondiali”. È una semplificazione assurda.
Quando ti chiedono risposte chiare e immediate, spesso non ce ne sono.
Ed è questa un’altra sfida per chi parla di pace: non è facile comunicare nella complessità. Da un lato, la comunicazione richiede sintesi; dall’altro, semplificare troppo significa tradire il senso delle cose.

Conclusione del XXVII Congresso Nazionale del Movimento Nonviolento in Piazza San Pietro.
Negli ultimi anni, avete lanciato una campagna di obiezione alla guerra per sostenere obiettori di coscienza, renitenti alla leva e disertori di vari paesi. In che cosa consiste?
Uno degli ambiti fondamentali di lavoro del Movimento Nonviolento è l’obiezione di coscienza alla guerra.
Siamo un movimento che crede nell’azione collettiva, ma l’azione collettiva deve partire sempre da un atto individuale, ossia io che mi rifiuto di prestare servizio alla guerra.
Prestare servizio alla guerra significa molte cose: non solo imbracciare un’arma, ma contribuire alla sua preparazione, sostenerne l’economia, accettarne la logica. La violenza della guerra è anche economica e strutturale, e comincia molto prima dei bombardamenti.
Quando c’è stata l’aggressione russa all’Ucraina, lavoravamo già su questi temi, ma da lì è nata la campagna Obiezione alla guerra. Ci siamo accorti fin da subito che tante persone provenienti da Russia, Ucraina e Bielorussia non volevano partecipare al conflitto e che andavano aiutate, perché nei loro Paesi rischiano pene gravissime, anche la pena di morte.
In Israele la situazione è simile. Non tutto il popolo è “nemico”. Noi sosteniamo apertamente le associazioni pacifiste israeliane e i refusenik, i disertori che si rifiutano di servire l’esercito. Sono persone splendide che, per citare Alexander Langer, “vogliono costruire ponti, non muri”.
Aiutare queste persone significa raccogliere fondi, coprire spese legali, sostenere le associazioni che operano nei loro territori e chiedere al nostro governo di occuparsene davvero.
Perché non basta dire “giovani russi, disobbedite a Putin”, se poi non facciamo nulla per accoglierli.
La campagna ha una ricaduta anche sull’Italia. In che modo?
Come sai, l’Italia oggi non ha un servizio militare di leva, ma si parla sempre più spesso di cosa accadrebbe “se entrassimo in guerra” e di come prepararci.
Con questa campagna, che non è solo una raccolta firme, ma una dichiarazione politica, diciamo: “io mi dichiaro non disponibile”. Indipendentemente dall’età e dal genere, dichiaro che non parteciperò né direttamente né indirettamente alla guerra, e chiedo che questa mia posizione sia registrata ufficialmente.
A giugno abbiamo consegnato al Quirinale più di 5000 dichiarazioni.
In parallelo chiediamo che l’Italia e l’Europa pensino a metodi diversi per affrontare i conflitti: creare corpi civili di pace, istituire una linea di pace demilitarizzata ai confini tra Europa e Russia, ricostruire il dialogo tra le parti.
Qualcuno potrebbe dire che sono proposte utopistiche. A noi, però, sembra molto più utopico aumentare in modo indiscriminato le spese militari, pensando di ottenere così maggiore sicurezza.
I negoziati sono faticosi, certo. E quando qualcuno chiede: “Ma con chi dobbiamo negoziare? Con il nemico?”, la risposta è ovvia: “Sì, certo”. Con chi vai d’accordo non serve negoziare. Parlarsi tra amici è utile, ma la diplomazia nasce dal confronto con chi non la pensa come te. Ognuno cede qualcosa, ma è anche un modo per avvicinarsi reciprocamente.
Invece oggi la logica dominante sembra essere: “Mi armo di più per dimostrarti che ho più forza di te”.

Massimiliano Pilati, Presidente del Forumpace dal 2014 al 2024.
Un’ultima domanda. Quali sono gli obiettivi e le prospettive del Movimento Nonviolento sul territorio trentino?
Il Movimento Nonviolento è un’associazione nazionale che lavora sui territori attraverso sedi e sezioni locali. Le sedi fisiche sono a Verona, che è anche la sede nazionale, poi a Brescia, Roma, Livorno e in Sardegna. Oltre a queste, ci sono sezioni ufficiali senza sede fisica, ma con gruppi attivi e strutturati. In tutto sono una decina. Negli ultimi anni sono nate nuove sezioni, come quelle di Reggio Emilia e Ferrara, e stiamo continuando in quella direzione, perché riteniamo che il lavoro locale sia fondamentale.
In Trentino ci sono diversi tesserati del Movimento Nonviolento, anche se sparsi nelle valli, e per questo non esiste ancora una sezione vera e propria.
Devo ammettere che la crescita del movimento locale, per un periodo, è stata un po’ rallentata anche dal mio impegno decennale come presidente del Forum trentino per la pace e i diritti umani, che ha inevitabilmente assorbito molte energie. Negli ultimi tempi, però, il lavoro è ripreso. Portiamo avanti la campagna Obiezione alla guerra, partecipiamo al tavolo sul disarmo all’interno del Forumpace e collaboriamo con diverse reti territoriali.
Speriamo ora di consolidare questo percorso e, un giorno, di poter creare una sezione stabile anche in Trentino. Un luogo di dialogo e di coordinamento che sarebbe un passo importante per il Movimento.


